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Vivere con il diabete di tipo 1? È come camminare sul filo

di Maria Santoro

Chi conosce davvero il diabete di tipo 1? Raccontare la storia di un paziente consente di spiegare alle persone che lo circondano e agli altri cos’è davvero la malattia. La storia di Francesca Ulivi può aiutarci.

Le hanno diagnosticato il diabete di tipo 1 a quarant’anni. Francesca Ulivi, giornalista professionista e manager televisiva, ha cambiato la sua vita nove anni fa.
«Continuavo a dimagrire rapidamente – racconta. - Bevevo tantissimo, circa 7-8 litri d’acqua al giorno e di conseguenza urinavo spesso».
Accusava giorno dopo giorno stanchezza e lentezza, lei che sino a quel momento aveva vissuto un’esistenza lavorativa e sociale frenetica: «I miei colleghi ripetevano che non ero più la stessa – dice – e che avrei dovuto al più presto effettuare dei controlli medici». La paura è sopraggiunta poco prima di un viaggio a Firenze. Doveva recarsi nel capoluogo toscano per parlare a giovani studenti e raccontare la campagna di iniziativa sociale ideata per MTV “Io voto”: «Proprio quando mi preparavo a scendere le scale per raggiungere i binari del treno – continua – mi sono accorta di non riuscire a muovermi e avevo una fortissima tachicardia. Ho impiegato 20 minuti a salire pochi gradini e ovviamente ho perso il treno». Francesca mangiava e dimagriva inspiegabilmente: «Al mio ritorno a casa da Firenze ho provato una sensazione fortissima e incontenibile di fame – afferma. – Ho divorato due "Mac menù" grandi, eppure la bilancia segnava un chilo in meno. Ho iniziato a pensare di avere un tumore all’intestino». Per scoprire la causa dei suoi problemi e delle sue preoccupazioni si è decisa a rivolgersi al medico di base e dopo le prime analisi del sangue è arrivata impietosa la diagnosi: «Sono stata chiamata d’urgenza dal laboratorio – racconta. – Avevo 16 di emoglobina glicata e 500 di glicemia, stavo rischiando la chetoacidosi*».

L’inizio, come per tutti i pazienti con diabete 1, è stato per Francesca traumatico. Doveva imparare in fretta a bucarsi e dosare l’insulina: «Non dimenticherò mai quel giorno – sottolinea. – Avevo la ricetta medica tra le mani e l’ho consegnata al farmacista sotto casa. Lui che mi conosceva bene non poteva credere fossi io l’intestataria della prescrizione». Sull’esenzione del farmaco la scritta “a vita” le sbatteva in faccia la gravità della situazione: «Mai più nulla sarebbe stato come prima; soprattutto in assenza di altre cure avrei dovuto per sempre fare i conti con le iniezioni – aggiunge. – In questa malattia la consapevolezza di sè e il controllo delle proprie scelte (quello che viene chiamato empowerment) è fondamentale per la sopravvivenza del paziente». 

Francesca aveva gli autoanticorpi (cioè anticorpi che l’organismo dirige contro se stesso) altissimi. Il diabete mellito di tipo I è una patologia caratterizzata dalla carenza di insulina dovuta proprio al processo autoimmune responsabile della distruzione delle cellule beta del pancreas: «Avere il diabete 1 è come camminare ogni giorno sul filo: per mantenere la glicemia stabile non puoi sbagliare – racconta – e una malattia cronica di questo tipo può stancare la mente del paziente». 

C’è sempre una fase di rifiuto della malattia che può essere molto pericolosa, e anche Francesca l’ha vissuta: «Per ben due volte mi sono ritrovata con ipoglicemia grave: ci sono volute più di sei ore per ristabilire i parametri glicemici - ammette. - Con il diabete 1 non puoi trascurare nulla. Ho iniziato a frequentare corsi per comprendere meglio il meccanismo della malattia e confrontarmi con la community dei pazienti. Soprattutto volevo essere parte attiva del processo di comunicazione e ascolto di altri malati». Francesca ha diretto fino al 2018 il canale MTVnews, poi ha scelto di lasciare il lavoro che amava per seguire una nuova strada professionale: «Non mi ero mai occupata di salute – commenta. - Ho pensato di applicare il metodo giornalistico che conoscevo bene alla malattia, per riuscire a dialogare con i pazienti, per restituire a loro informazioni semplici, sostenendoli soprattutto dal punto di vista psicologico. Ormai esistono molti gruppi chiusi di pazienti sui social ed è molto importante che nessuno si senta solo, neppure nel cuore della notte».

Ha messo al servizio della comunità dei diabetici il suo talento per comunicare correttamente la patologia e iniziare a raccogliere fondi per la ricerca: «Oggi sono direttore generale della Fondazione italiana diabete – continua – e sono felice: sì lo sono, perché finalmente attraverso questo lavoro riesco a restituire agli altri tutto quello che la vita prima del diabete mi ha generosamente dato».

Ha imparato a leggere gli studi scientifici per trasmetterli in forma semplice alla comunità dei pazienti, collabora con l’ospedale San Raffaele e con il Niguarda di Milano, dove spesso modera convegni e incontri sul tema: «Proprio a una conferenza stampa ho conosciuto mio marito – racconta. – Lui è il primario dell’Unità di Medicina Generale indirizzo diabetologico ed endocrino-metabolico del San Raffaele. Non posso dire che avere il diabete è una fortuna, sarebbe falso, ma a causa del diabete e grazie al mio carattere so cosa significa apprezzare la vita».

Francesca svolge il ruolo di “advocate”, ovvero rappresentante della categoria dei malati diabetici di tipo 1 anche a livello internazionale: «Le aziende che producono nuovi farmaci o dispositivi sanitari mi invitano ai convegni, poiché è sempre più importante anche in campo farmaceutico costruire comitati di pazienti – racconta. – Sono uno strumento per gli altri, e questo mi piace».

Purtroppo i diabetici di tipo 1 vengono spesso “confusi” con i diabetici di tipo 2: «La patogenesi e la gestione delle due malattie non hanno nulla in comune. Il diabete di tipo 1 non dipende da quanto mangi – afferma. – Di comune ci sono soltanto le complicanze». Avere questa malattia significa sostanzialmente riservare sempre una parte del cervello alla gestione del problema, alla valutazione delle cose che si possono o non possono fare. Si può fare tutto con il diabete? «Sì – dice Francesca – ma con uno zainetto di cemento sulle spalle».

Ci sono tantissime fake news che purtroppo non aiutano i pazienti a seguire correttamente la terapia: «Ad esempio l’insulina non fa ingrassare, ma senza certamente si muore – ricorda. – Ognuno è diverso, e per questo non esistono quantità fisse giornaliere, ma ciascun paziente deve imparare a stabilire il dosaggio». Oggi anche la tecnologia aiuta molto a monitorare la malattia: «Io porto al braccio un sensore con ago che legge a intervalli regolari il livello di glicemia e se troppo alto o basso invia degli "alert": con ipoglicemia grave si può andare in coma in un’ora – racconta Francesca. – Ciascuno sceglie le modalità più comode per somministrarsi l’insulina. Sono passata dal microinfusore alle penne, circa 6-7 al giorno, ma è tutto variabile». Se mangi di più, se fai sport, se hai la febbre, le quantità cambiano: «Purtroppo esistono personaggi come Adriano Panzironi che affermano di poterci guarire dal diabete - dichiara. - Io stessa all’inizio ho letto letto un libro intitolato Guarire dal diabete in 120 giorni, perché purtroppo chi si ammala cerca, spesso, soluzioni più facili alla malattia». 

Ancora oggi c’è chi muore per la mancata diagnosi, perché non tutti i medici di base recepiscono i sintomi in tempo: «Tre bambini sono deceduti in Italia nel 2019 – rimarca Francesca. – Non è accettabile». Sbagliato e dannoso per gli stessi pazienti sminuire la malattia: «Sento dire: c’è di peggio – conclude – ma non ha senso. Bisogna dire senza paura che il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune cronica degenerativa grave, per la quale non esiste cura. Soltanto dicendo questa verità potremo aiutare la medicina. Oggi ho una visione diversa della scienza. Ci credevo anche prima della diagnosi, ma ho imparato ad attribuire un valore vitale alla ricerca scientifica. Difendiamola perché lei difende noi».

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* La chetoacidosi diabetica è dovuta a una marcata carenza di insulina che genera una risposta compensatoria dell’organismo, il quale, per la produzione di energia, passa a un metabolismo di tipo lipidico (vengono bruciati gli acidi grassi e, soprattutto, i trigliceridi), con conseguente produzione di corpi chetonici (acido acetoaceticoacetone, e acido beta-idrossi-butirrico). Il passaggio nel sangue di queste sostanze provoca una caduta del pH fino a valori di acidosi molto marcati. La chetoacidosi provoca nausea, vomito e dolori addominali e, nei casi più gravi, può progredire fino all’edema cerebrale, al coma e al decesso.

Data ultimo aggiornamento 4 aprile 2020
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Diabete, la corsa per il trapianto "perfetto"



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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